Come possiamo descrivere le enormi contraddizioni della nostra contemporaneità? Credo che usare metafore e similitudini sia sempre un buon compromesso tra una spiegazione semplice e la complessità che necessariamente deve essere chiarita e semplificata. Credo, quindi, che utilizzare Haiti come paradigma utile a spiegare le contraddizioni del nostro tempo possa garantire quel compromesso fra la complessità in atto e la necessità di fare i conti con le poche righe di questo articolo.
Haiti rappresenta un tema continuamente dibattuto su giornali e riviste di varia natura e la sua continua attualità risulta dalla situazione di costante precarietà ed emergenza. Qualche numero per inquadrare il problema haitiano creatosi fra il terremoto del 2010 e l’uragano del mese di agosto di quest’anno. Nella loro dichiarazione l’ONU, l’UNICEF e l’UNHCR hanno citato l’escalation di violenza e insicurezza ad Haiti, osservando che almeno 19.000 persone sono state sfollate a Port-au-Prince durante l’estate del 2021. Inoltre, oltre il 20% delle ragazze e dei ragazzi sono state, negli ultimi anni, vittime di violenza sessuale e quasi il 24% della popolazione (più della metà dei quali bambini) vive al di sotto del livello di povertà estrema di 1,23 dollari al giorno. Quasi il 46% della popolazione (4,4 milioni di persone) affronta un’insicurezza alimentare acuta e 1,2 milioni sono a livelli di emergenza, con 3,2 milioni di persone a livelli di crisi. Le tre organizzazioni hanno stimato che 217.000 bambini haitiani soffrono di malnutrizione acuta da moderata a grave.
Situazione, questa, che consente a vari soggetti di sguazzare allegramente nei flussi costanti delle economie emergenziali. Ad Haiti, è facile osservare come la ricchezza genera ricchezza e la povertà genera povertà, un fatto tipico del sistema socioeconomico nel quale viviamo. Il meccanismo in sé è abbastanza semplice: una popolazione estremamente povera non può generare gettito fiscale; senza questo la spesa pubblica è ridotta al lumicino. Un paese povero, quindi, non può fare altro che indebitarsi e divenire sempre più dipendente da “aiuti” esteri, i quali si possono distinguere in due tipologie – aiuti umanitari e prestiti. Ad Haiti, gli aiuti alimentari statunitensi hanno inondato il mercato fornendo cibo a basso costo ma hanno anche allontanato molti agricoltori haitiani dalla terra.
Distorsioni del genere avvengono solitamente quando si passa da un’emergenza a una situazione cronica, quando cioè si struttura “l’economia dell’emergenza”. In Italia dovremmo esserne ben consapevoli dal momento che trotterelliamo allegramente da un’emergenza all’altra, si pensi a quella dei rifiuti da Roma in giù. Ebbene è assai difficile definire “emergenza” qualcosa che va oltre un periodo ragionevolmente breve di tempo: tredici anni di emergenza rifiuti tra Campania e Calabria, ad esempio, è una contraddizione in termini. Da emergenza si passa a condizione strutturale, condizione che consente di derogare, aggirare, destrutturare e creare circuiti di accumulazione che nei processi ordinari non potrebbero avvenire.
Le emergenze svicolano da procedure di controllo e annichiliscono il dissenso, creano quel senso di disperazione che fa implorare una soluzione, qualunque essa sia, costi quel che costi. In questo meccanismo i palliativi sono la regola, i costi si gonfiano e vengono scaricati direttamente e indirettamente sulla popolazione. I costi da eminentemente monetari divengono sociali e ambientali, nel momento in cui l’economia dell’emergenza procede a innervare in una struttura stabile tendenze già in atto.
Parliamo ovviamente della tendenza alla corruzione insita in ogni sistema complesso, gestito da una macchina amministrativa che ben si presta a tale scopo. Haiti ha la reputazione di essere gestita da un governo corrotto e corruttela genera corruttela nel momento in cui tale prassi è foriera di accentramento di potere. Nel caso delle emergenze c’è solitamente un meccanismo abbastanza simile, che si innesca indipendentemente dall’area geografica o dalla tipologie di governo, sia esso autoritario o democratico. Si hanno le mani libere in quanto si va in deroga a tutto, si hanno fondi da gestire e spesso nessuno che controlla. In questi casi sottrarsi al gioco è abbastanza difficile, anche quando non si è propriamente collusi si deve comunque ungere qualche ruota. Tant’è che sprechi, cattiva gestione, frode e corruzione affliggono anche enti di beneficenza, organizzazioni non governative e agenzie di varia natura.
Solo una piccola parte degli aiuti esterni promessi ad Haiti dopo il terremoto del 2010 ha effettivamente raggiunto il popolo haitiano. Preoccupati per la corruzione, i donatori hanno tentato di aggirare il governo haitiano sperando di non incappare nelle reti di distribuzione dei benefit da economia dell’emergenza. Il problema non è però stato risolto, in quanto tutto il carrozzone di ONG et similia, non conoscendo condizioni, equilibri e risorse locali, ha sperperato milioni di dollari in progetti mal concepiti e mal eseguiti che, in realtà, hanno peggiorato la vita degli haitiani. Un articolo del 2012 di Ian Birrell sul Daily Mail riportava che mentre gli errori aumentavano e il denaro veniva sprecato, i prezzi del cibo e dei beni di prima necessità per la popolazione locale sono aumentati vertiginosamente, le condizioni igienico-sanitarie si sono deteriorate, fino a minare l’accesso all’acqua potabile. Tali interventi, seppur sulla carta fossero animati dalle migliori intenzioni, hanno reso le cose infinitamente peggiori.[1]
Ad esempio, nella ricostruzione e nei piani di aiuto non si trova traccia tangibile di operazioni che puntino al risanamento ambientale, alla ricostruzione di scuole e altri servizi, ma permangono problemi sanitari e ambientali di proporzioni ragguardevoli. Come le tonnellate di rifiuti, che nessun progetto delle migliaia di ONG presenti (circa 12 mila) prevede di raccogliere e recuperare. Molti dei rifiuti sono prodotti dalla mancanza strutturale di interventi di risanamento. Mancando l’acqua potabile non si è immaginato altro che importare milioni di bottiglie d’acqua le quali hanno formato vere e proprie colline, che vengono eliminate semplicemente incendiandole, coi risultati ben facilmente immaginabili.
Non c’è però la sola questione dell’economia dell’emergenza a tenere banco ad Haiti. Ho detto in apertura di questa piccola analisi che la disastrata realtà caraibica è da considerarsi esempio paradigmatico di come il capitale riesca sempre e comunque a riprodursi soprattutto lì dove la “norma” viene spostata sull’emergenza strutturale. Uno dei fenomeni fisiologici che accompagnano le zone impoverite e distrutte sono le ovvie fughe di massa da situazioni di pericolo. Non poteva fare eccezione anche la situazione haitiana. Una diaspora che vede migliaia di persone in fuga da Haiti verso il resto del Sud America e il Nord America. Questi flussi sono soggetti alle stesse e identiche vicende affrontate tanto dai migranti africani quanto dai profughi mediorientali. Un fenomeno che si struttura sulla corruzione di funzionari, sul pagamento per il trasporto sulla terra ferma con mezzi di varia natura, sfruttamento, imprigionamento, violenze legalizzate e non.
Se da questa parte del mondo avevamo lautamente pagato il colonnello Gheddafi per fare da cane da guardia per la civilissima Europa, attraverso detenzioni di massa contrappuntate da fucilazioni sommarie, da quell’altra parte alle deportazioni ci pensa lo Zio Sam. Con una continuità e uno zelo tipicamente yankee, l’amministrazione Biden riprende lì dove il suo collega Trump aveva lasciato.
A denunciare la questione non sono dei siti rivoluzionari o tacciabili di bolscevismo o anarchismo radicale: a muovere delle rimostranze sono niente di meno che le massime organizzazioni mondiali in fatto di “civilizzazione di massa”. Sappiamo, dall’esperienza, che le loro rimostranze comprese le risoluzioni possono essere mortali per qualcuno e acqua fresca per qualcun altro (vedasi la catasta di risoluzioni ONU contro Israele che hanno la stessa valenza della carta igienica). Ad ogni modo, per quanto inutili, aprono una questione rendendola quantomeno di pubblico dominio condendoli di statistiche spesso agghiaccianti.
L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) e l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) hanno invitato gli Stati Uniti ad astenersi dall’espellere gli haitiani senza un’adeguata valutazione della loro protezione individuale e dei loro bisogni, esortandoli a difendere i diritti umani fondamentali. Non è però solo lo Zio Sam a essere cattivo: gli altri stati dell’America Centro-Meridionale non sono da meno. I rimpatri dal Cile ad esempio, somigliano molto a una sorta di deportazione mascherata, tanto che i “requisiti” per poter partire prevedono che chi lascia il Cile non potrà tornarci per i prossimi 9 anni.
Tutto ciò ancora non basta a disegnare i contorni paradossali del sistema: la ricostruzione dell’economia haitiana passa doverosamente per i prestiti e per l’interessamento di alcuni stati notoriamente “filantropi”. La comunità internazionale ha risposto all’emergenza economica haitiana allo stesso modo col quale si getta un’incudine a una persona che sta annegando: “Sono stati stanziati 9 miliardi di dollari in aiuti per la ricostruzione. Una parte di questi aiuti è stata destinata al rilancio economico del Paese attraverso la realizzazione di un parco industriale per la produzione tessile da esportazione, il Caracol Industrial Park (CIP), nel Nord dello Stato la cui costruzione è stata avviata nel 2011. Il progetto è nato dalla collaborazione tra il Governo di Haiti, la Inter-American Development Bank (IDB, il principale finanziatore con 242 milioni di dollari), il Dipartimento di Stato americano e l’azienda sudcoreana di abbigliamento Sae-A, a oggi principale produttore all’interno del parco industriale.” [2]
Per quanto esoso possa essere il costo di una qualsivoglia ricostruzione, rimane il fatto che questa diviene un’ipoteca imperitura sulle spalle di un’intera popolazione, per cui i prestiti erogati hanno la funzione di soggiogare intere aree geografiche. Il giochino è più o meno il seguente: se c’è un paese in crisi o ha bisogno di liquidità e magari è un paese che ha un certo valore strategico (per i giacimenti, per la posizione o per alcune produzioni ad alto valore aggiunto), allora si mette in moto il meccanismo dei prestiti. Il problema è che dal momento che il paese che si indebita non ha disponibilità, le politiche suggerite per ammorbidire il rientro del prestito non fanno che portare altro debito. In mancanza d’altro, solo gli interessi sul debito bastano e avanzano a strangolare anche un paese come l’Italia e a cedere alle isterie del mercato; figuriamoci una realtà assolutamente devastata e povera come quella di Haiti. Quindi si aprono le praterie per chiunque abbia una buona idea su come usare quella situazione come moltiplicatore di investimenti, il tutto ovviamente finanziato da fondi pubblici, come quelli della Federal Reserve, che inietta finanziamenti con programmi di aiuto (vedi le svariate ONG) o programmi di reindustrializzazione per poi far marciare sul terreno sgombro le varie aziende, i general contractors e via dicendo.
Un sontuoso meccanismo che utilizza le disgrazie altrui come pretesto per drenare risorse pubbliche nelle tasche di fameliche organizzazioni finanziarie e compagnie industriali di ogni genere. Tutto purché i flussi di capitali non si fermino: quello è il timore più grande e, quindi, ben vengano le disgrazie, le tempeste, i terremoti e le sciagure di ogni genere. Ognuna di queste genera un ROI (Return Of Investment) e quindi sorge il dubbio: se dalle sciagure si guadagna più che nelle fasi ordinarie, come si può immaginare che il capitale voglia investire per mitigare i cambiamenti climatici che così tante risorse riescono a muovere in un periodo di profonda crisi e stagnazione?
Lì dove non possono più le guerre – che hanno sempre bisogno di una giustificazione etica o morale – i disastri climatici consentono di ricostruire a più riprese sullo stesso terreno, sperimentando nuovi sistemi di finanziamento e nuovi prodotti finanziari per speculare su ogni raffica di vento più forte della media, nella speranza che tiri giù qualcosa di costoso.
J. R.
NOTE
- Cfr. BIRREL, Ian, “Haiti and the shaming of the aid zealots: How donated billions have INCREASED poverty and corruption”, url: https://www.dailymail.co.uk/news/article-2092425/Haiti-earthquake-How-donated-billions-INCREASED-poverty-corruption.html
- Cfr. SENS, Roberto, “Giustizia per Haiti Ricostruzione post-terremoto e land grabbing: il caso Caracol”, disponibile on line, url: https://www.actionaid.it/app/uploads/2017/01/Giustizia-per-Haiti.pdf